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PAESI
Mostra personale

Maurizio Duranti

17 novembre - 01 dicembre 2018

 

PAESI

La realtà conosciuta attraverso il simbolo come stato della mente, condizionata dal proprio immaginante, così va detto dei pezzi di Maurizio Duranti che sostituisce un’idea ad un oggetto, siccome le regole del linguaggio a lui congeniale, che all’ambito mentale simboleggiante vorrebbe conferire una nuova intensità di sguardo.
Il riferimento alla natura è del tutto ideale e, nell’esercizio della fantasia, mitico.
I Salteri di Canterbury o di Utrcht, i mosaici di San Marco e quelli della Cappella Palatina di Palermo potrebbero costituire un ascendente proto tipico, la chiave magica che introduce là dove bisogna guardare per ritrovare.
Del resto è singolare e precipuo di tutta la storia della pittura di paesaggio essere essa, soprattutto, la manifestazione evidente dei molti artefici necessari per guidare l’occhio, da un piano all’altro alla voluta verità, o degli espedienti per i quali la collocazione di ogni forma sia il risultato di pensiero e di meditazione intenzionale.
Del resto, la stessa penetrazione spaziale, per esempio, nei Paesi di Pussin, è diretta all’essenza del paesaggio secondo “convenienza” a un complesso ideale, o immaginato tale.
Insomma, quel che Duranti, qui, mette in questione, è l’ipotesi metafisica del concetto che si insinua nelle risoluzioni antinomiche tra mondo sensibile e mondo intellegibile e che consente, tramite il processo astrattivo, di pervenire alla conoscenza.
L’atteggiamento che avvia tale recupero per mezzo della rappresentazione consiste in una messa a fuoco distanziante e sostanzialmente contemplativa tanto da allontanare i particolari naturalistici in un limbo formale che li fagociti nel suo insieme, nella sua totalità di apparenza, per ridurli, appunto, al concetto visivo della rappresentazione statica freddamente mostrata che è quella non della cosa ma dell’idea della cosa, della messa in scena delle apparenze che neutralizzano le essenze proprio in questa nostra civiltà dello spettacolo teorizzato da Guy Debord e strettamente interrelata da pensatori quali Marcuse e Mc Luhan quando ci dicono che nell’età delle tecnologie avanzate non viviamo ma ci guardiamo vivere, per cui non ci poniamo nella natura ma nel suo simulacro.
Ecco, appunto, allora, l’immagine consunta di “paese”, il suo profilo fantasmatico, la sua datità araldica e pubblicitaria, come luogo mitico dell’impossibile viaggio nella realtà contemporanea.

Germano Beringheli - 1983


 

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